di Arianna Apicella
Questo è un esperimento per raccontare impressioni personali e collettive, raccolte mese per mese, a partire da tre parole che iniziano con la stessa lettera.
Alla fine, anche se per qualche giorno, pare che siamo partiti quasi tutti. La città era vuota eppure i nonni e le nonne erano rimaste a casa ad aspettare il vento del pomeriggio sul balcone, sonnecchiando davanti la tv in primo pomeriggio e in prima serata.
Avrà vinto il “e se poi ci chiudono di nuovo non ci siamo fatti neanche una vacanza?” e lo scrupolo di essersi fatti fregare di nuovo quel poco di tranquillità che di solito porta l’estate a chi può trascorrerla senza la preoccupazione di trovarsi un lavoro.
Il 20 agosto al Decathlon erano rimaste solo tre tende costose e difficili da chiudere perché eravamo tutti in campeggio a sentirci più intraprendenti e sensuali ma non per questo meno giudicanti e tossici.
Stare lontano dal giaciglio di riferimento avrebbe dovuto liberarci dai problemi incastrati negli angoli delle quattro mura in cui viviamo eppure abbiamo portato buste e bottiglie di plastica anche lungo il fiume, parole taglienti e dolorose anche dentro i boschi.
Sì, sì, abbiamo portato anche i balli ma quando finiva la musica bisognava gestire lo scotto di esserci disabituati alla convivenza e la scia del trauma in due tempi regalatoci dai giorni di reclusione.
Al ritorno da un fine settimana non troppo lontano da casa o da una festa molti si sono sentiti addosso il raffreddore, la febbre, il resto dei sintomi, il senso di colpa di essere usciti con il solo scopo di divertirsi e la voglia di farsi un test sierologico per far stare tranquilli tutti e i parenti e gli amici di tutti.
Ogni paura sembrava essere la predizione di una catastrofe che, per il solo fatto che si sarebbe potuta verificare era già motivo di agitazione e quindi realtà.
La distanza esistente tra la percezione personale di un pericolo e la sua effettiva pericolosità sembrava essere sempre più corta ma per fortuna agosto è finito.