di Alessandra Contu
Ti ho già detto che una spina non la sento?
No, neanche due.
Se ricopro il mio corpo di aculei, potrei essere qualcuno a cui l’assillo non fa effetto.
Potrei dirti: “No, non sono mai stata quel tipo di persona, sai non provo stimoli”.
Potrei cercare l’ipocrisia nelle mie parole.
Venerarla, e renderla reale. Reale per me, così da adattarmi di più a te.
Se applichi una pressione costante su quella sorta di pungoli
potrei dirti: “No, non mi fai male, premi più forte”.
Potrei innamorarmi di te, che altro non sei che il mio masochismo.
Fare l’amore con lui.
Quasi soffocarlo tra le mie braccia, accarezzarlo con le unghie,
e dirgli: “Non ti lascerò mai, sarai per sempre mio”.
E lui potrebbe crederci e attaccarsi al mio capezzolo,
e succhiare con violenza il mio sangue velenoso
per poi restare in fin di vita.
Così avrei perso anche lui, e sarei di nuovo sola.
Sola con i miei squarci aperti, con la mia linfa putrida.
Io lo sento l’odore di marcio,
e potrei chiederti: “Tu lo senti?”.
Potrei spiegarti la causa di questo tanfo,
e dichiarare platealmente: “E’ il mio amore che si sta decomponendo!”.
E tu non fiateresti dall’imbarazzo.
Cosa mai potresti dire a una persona con gli organi in cancrena?
Niente che non sia pregno di compatimento putrefatto.
Forse potresti cercare una cura, da brava persona quale sei.
Non si abbandona un moribondo alla sua fine segnata.
Alla morte non ci si rassegna, ti hanno insegnato.
Eppure, in un rantolo, rivelo ancora: “E’ quello che voglio, lascia che sia”,
e tu potresti lasciare andare il tuo corpo sul mio,
schiacciarmi con tutto il peso del tuo essere,
spingendo fino al cuore il pungiglione che sarà per me fatale.
E potresti sussurrarmi all’orecchio,
con voce calma ma decisa: “Ora sei libera di andare con lui”.
E io nella mia agonia conclusiva, vorrei sapere: “Lui chi?”
Allora tu potresti stringermi ancor più forte, determinata a far di quelle tue parole le ultime da me udite: “Il tuo amore”.